Posso dirlo? Per me è geniale.
E mi riferisco all’idea che il guscio sia un utero.
Ma non l’utero di una donna qualunque.
L’utero di un’aspirante assassina.
Ecco che le cose si fanno ancora più interessanti.
Il narratore è un feto ancora senza nome che percepisce l’esterno in base ai suoni distorti dal liquido amniotico e alla luce filtrata dal corpo materno. Si tratta di un esserino estremamente intelligente ed istruito grazie alla passione della madre per la radio ed i podcast.
Ascoltando ciò che lo circonda però scopre che la genitrice stia architettando un terribile delitto.
La citazione di Amleto all’inizio del libro dovrebbe dare qualche indizio, ma non posso raccontarvi altro della trama ed essendo un thriller il motivo mi pare ovvio. Nel caso in cui lo acquistiate vi consiglio anche di non leggere il riassunto sulle alette della sovraccoperta, lascerete così la vostra mascella libera di cadere durante la lettura come è successo a me.
Similmente a “Uomini e topi”, di cui ho parlato nel precedente articolo, questo libro potrebbe benissimo essere adatto per un testo teatrale. Scene nell’utero a parte, l’intera vicenda si svolge nella casa abitata dai protagonisti. Il punto di vista è, attraverso il feto, quello del colpevole e mi ha ricordato “Delitto e castigo” di Dostoevskij, dove l’omicida diventa tale senza avere le capacità di sopportare un tale peso sulla coscienza.
Che cos’è un criminale in fondo? Se non uno spirito in preda allo scompiglio?
Durante tutto il libro il feto si lancia in voli pindarici improbabili anche ammettendo la sua straordinaria precocità intellettuale, ma McEwan li sfrutta per dire la sua su molti temi di attualità.
Molto tempo fa, qualcuno ha decretato virtuoso possedere certezze immotivate.
I più virtuosi spettri d’Europa, la religione e, laddove questa barcolla, le utopie atee pronte a sparare prove scientifiche.
Devo ammettere che, seppure interessanti e molto ben scritte, queste digressioni il più delle volte mi hanno infastidita impaziente com’ero di sapere la sorte di questa povera creatura che, ancora prima di essere nata, capisce di essere indesiderata. Ignorata completamente dal padre, non ha altra scelta che tirare qualche calcio ben assestato alla madre per ricordarle la sua presenza. La gravida Trudy non si preoccupa minimante della sua salute. Beve smodatamente, mangia schifezze o salta direttamente i pasti, eppure c’è molta tenerezza nelle descrizioni dei sentimenti che il feto prova verso lei e la vita.
La ama perchè madre, ma la odia per ciò che sta per fare.
E’ eticamente contrario al delitto e vorrebbe che gli assassini, perchè scoprirete siano più d’uno, pagassero per questo, ma egoisticamente vorrebbe anche crescere lontano da una prigione ed in un momento di sconforto, tra “l’essere e il non esserci ancora” preferisce scegliere il “non nascere mai”.
Trovo profondamente ironico il fatto che la sua esistenza sarà invece la chiave di volta delle vite degli assassini.
Come colonna sonora questa volta ho scelto la Devil’s Dance che il violinista Gil Shaham prende in prestito dalla colonna sonora del film “Le Streghe di Eastwick” composta dal meraviglioso, immenso, inarrivabile John Williams.
Anzi, vi lascio anche la versione per orchestra perchè non se ne ha mai abbastanza!!!
Vorrei in ultimo spendere due parole per la copertina perchè la trovo geniale nella sua semplicità, ma, dopo averlo letto, non riesco a pensare che un feto così maturo ed intelligente abbia il viso da fanciullo del bimbo raffigurato. Anche con meno cattiveria, io me lo immagino più come Stewie Griffin!