Con il secondo libro di Chimamanda Ngozi Adichie posso ribadire di aver trovato un’altra scrittrice da far ascendere nel mio personale empireo di grandi.
Le sono profondamente grata per avermi fatto scoprire l’Africa – ed in particolare la Nigeria – come lo sono a Murakami per il Giappone.
Scrittori così ti prendono per mano e ti aprono la mente insieme ad ogni altro senso. Una volta chiuso il libro senti di avere nell’anima un pezzettino di conoscenza e di vissuto in più.
Detto ciò, ho scelto questo romanzo dopo aver letto Americanah – che ho adorato e di cui trovate l’articolo qui – sia perchè è stato l’esordio come scrittrice, sia perchè mi hanno sempre interessato molto i libri riguardanti i fanatismi.
Questo in particolare affronta il dualismo di un padre che, in nome della fede cattolica, è santo fuori dalle mura domestiche e violento all’interno.
Era una cosa che facevamo sovente, scambiarci domande di cui sapevamo già la risposta. Forse era per non farci le altre domande, quelle di cui non volevamo sapere la risposta.
Sono più d’uno i temi affrontati in questo libro. Da una parte un padre fanatico che in nome della fede cattolica, si fa santo fuori dalle mura domenstiche e demoiaco dentro.
Dall’altro Kambili – mamma che bel nome!!! -, la figlia quindicenne che, insieme al fratello, si affaccia all’adolescenza ed alla vita oltre l’assolutismo paterno.
Sorvolando sulla bellezza del nome Kambili direi che ci troviamo di fronte ad un romanzo di formazione oltre ad una testimonianza della spaccatura in cui si trova la Nigeria del postcolonialismo. Il paese, diviso fra usanze autoctone ed imposte, è perfettamente incarnato nel padre di Kambili che rifiuta la religione pagana ed è proprietario dell’unico giornale indipendente dello stato.
“Sono sempre così silenziosi, così tranquilli.”
“Non sono come i bambini chiassosi di oggi, tirati su senza educazione e senza timore di Dio”
[…]
“Immagina cosa sarebbe il giornale se fossimo tutti così silenziosi.”
Era una battuta […], ma papà non rise. Jaja e io ci voltammo e tornammo di sopra, in silenzio.
Non è tanto la vicenda politica quanto quella famigliare ad avermi rapita e ho trovato molto interessante la rappresentazione della rosa di sfumature che coesistono nella figura dispotica, terrificante, ma, a suo modo, amorevole – lungi da me scusarlo, sia chiaro -.
Non nascondo di aver patito i punti di violenza che sono riportati crudamente, senza sconti o perbenismi.
La scelta di rendere Kambili narratrice in prima persona è decisiva per rendere il funzionamento della mente di una vittima.
Per me è sicuramente questo l’aspetto più significativo del libro. Ragionamenti che passano inosservati in un’anima libera, non germogliano neppure in quella di Kambili fino a che suo fratello non compie un primo, significativo, atto di ribellione fine a se stesso contro il padre.
Da quella domenica delle palme il seme di una nuova consapevolezza germoglierà nelle menti dei due adolescenti, con tempi e modalità diverse, ma con un unico scopo.
“Tu pensi che siamo anormali?”
Jaja mi guardò, poi voltò gli occhi verso la fila di garage nel cortile davanti. “Che significa anormale?” chiese, una domanda che non richiedeva e non voleva una risposta.
Nessuno spoiler ovviamente, posso dirvi però che mi è piaciuto molto il finale. Punto.
Vi consiglio di fare una ricerca su Chimamanda Ngozi Adichie, su youtube si trovano tante sue belle interviste e su instagram i suoi outfit fascinosi, particolari e coloratissimi!
Come colonna sonora – a parte questo video che insegna a pronunciare correttamente il suo nome e che mi ha fatta morire dal ridere – ho pensato alla Dance of the Knights tratta dal balletto Romeo and Juliet di S. Prokofiev. L’andamento di marcia mi fa pensare a qualcosa di minaccioso, irragionevole ed inesorabile, come può essere il fanatismo.
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